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TRAFFIC Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 aprile 2001
 
di Steven Soderbergh, con Michael Douglas, Benicio Del Toro, Don Cheadle, Catherine Zeta-Jones, Luis Gúzman, Amy Irving, Tomas Milian (Stati Uniti, 2001)
 
Come dice il titolo, filmare il traffico. Descrivere, non il drogato (cosa già fatta). Denunciare, non tanto un sistema di scoraggiante, ambigua ineluttabilità (già visto). Testimoniare: di un flusso, un intreccio di coinvolgimenti che invade uno spazio altrimenti vasto di quello attraversato dalla rete che separa il territorio fisico del film, quello fra gli Stati Uniti ed il Messico. Registrare: con uno stile che si vuole quindi da verismo televisivo, senza distinguere (anzi, le apparenze sono opposte) fra buoni e cattivi, messicani e americani, genitori e figli, ricchi e poveri, aguzzini e vittime. Una ragnatela con al centro il male: la droga certo, ma pure la cupidigia, il condizionamento sociale, la miseria o la violenza, la repressione, la politica.

Ex bambino prodigio del cinema americano degli anni 80 (con i Coen, Tarantino e Tim Burton), Palma d'Oro di Cannes a 26 anni con SEX, LIES AND VIDEOTAPE, autore recente di un gioiello misconosciuto (THE LIMEY -L'INGLESE) e di un successo straripante anche grazie alla protagonista (ERIN BROCKVICH), a Steven Soderbergh riesce ora con TRAFFIC non il suo film più bello, sorprendente o perfetto. Ma il più importante, ed il più utile; per come un autore da sempre indipendente ribelle riesca a ritrovarsi in sintonia (non troppo penalizzante) con Hollywood.

Girato con anche tentazioni di teatralità alla Scorsese, con una coralità di sceneggiatura alla Altman (110 personaggi, nove città, due ore e venti) che non sempre si sposano allo spirito di quello che vuol essere un reportage da cinepresa a spalla sulla lotta antidroga, TRAFFIC si organizza ambiziosamente su tre storie. Quella di due poliziotti messicani (uno è Benicio del Toro, che giustifica non solo l'Oscar, ma la visione del film) alle prese con i cartelli della droga rivali e la corruzione della repressione locale; quella di due colleghi americani dall'apparenza altrettanto poco affidabile, ma a loro volta tesi a smascherare il perbenismo di un notabile di San Diego e della sua non proprio sprovveduta consorte (Catherine Zeta-Jones); infine, quella del magistrato supremo della lotta a Washington (Michael Douglas, che improvvisa anche diverse sequenze), che scoprirà quanto il flagello è giunto a colpirlo nell'intimo.

TRAFFIC si costruisce (ed in parte si squaglia) sul principio della contraddizione. Da un lato vuol dirci che quella contro la droga è una lotta impari ed impotente. Nella quale i soli Stati Uniti hanno investito 20 miliardi di dollari, raddoppiando il budget dal 1996; ma constatando che il numero dei tossicomani è in continuo aumento. Con un atteggiamento ufficiale che finisce per sposare quello ben noto del generale messicano del film: " I drogati si curano da soli: prendono una overdose, ed il problema è risolto". Dall'altra, il film si costruisce su alcuni personaggi che ancora credono nel trionfo della buona volontà. Contraddizione probabilmente inevitabile, perché conforme alla realtà. Ma che l'estetica del film, peraltro raffinata, tende ad esasperare. TRAFFIC scivola si, ammirevolmente, da un lato all'altro dei confini (geografici, sociali, economici) di una stessa terribile medaglia; con la "neutralità" di un documentario che Soderbergh ha tenuto a filmare di persona. Ma non riesce ad evitare i passaggi melodrammatici (i rapporti padre-figlia, ad esempio) e prevedibili cari al sistema. Inventa dei dialoghi verissimi fra gli adolescenti alto-borghesi, altrettanto vittime della droga dei loro coetanei del sottoproletariato: ma poi costruisce uno schema cromatico di pura messa in scena per "spiegare" spazialmente e psicologicamente il proprio discorso. Dominanti fredde e bluastre per la Washington di chi crede tenere le redini, filtri giallo-oro per l'ambiguità luminosa di San Diego, seppia da dagherrotipo coloniale per il sud degli scamiciati. Tutto seducente; a somiglianza della destrutturazione della sceneggiatura che alimenta l'interesse del film, la sua volontà d'indagare politicamente, e non solo poliziescamente nel problema.

Rimane il fatto che la replica finale del protagonista (" È impossibile lottare, quando il male è nella propria famiglia") riassume, malgrado queste sue contraddizioni, i meriti di un film girato da un cineasta vero ed attento: che, una volta tanto, è riuscito a smuovere Hollywood ed il suo potere di divulgazione assieme e (quasi) tutte le sue sempre più insopportabili formule.


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